Strategie creative a lavoro: Work Smarter, not Harder

Work Smarter, not Harder

Immagina per un attimo uno scenario nel quale il tuo lavoro divenisse improvvisamente superfluo.

Infatti, è stato sviluppato un sofisticato software in grado di svolgere le tue stesse mansioni, con la stessa qualità, ma gratis.

Tu, dipendente con contratto a tempo indeterminato, non puoi essere licenziato così repentinamente.

 

Il tuo datore di lavoro ti offre due opzioni:
  • Ti viene offerta una buona uscita corrispondente a tre anni di stipendio per licenziarti
  • L’azienda ti offre l’opportunità di continuare a lavorare. Nuova mansione assegnata, con il rischio di automazione futura, mantenendo l’attuale stipendio.

La domanda è: Tu Cosa faresti?

La maggior parte delle persone, potrebbe non avere dubbi.

L’opzione 1 sarebbe la più gettonata.

Tuttavia, ci sono sempre alcuni individui che preferirebbero continuare a lavorare, nonostante tutto.

Cosa ne pensate di queste persone? Cosa dite della loro personalità?

Questo scenario è stato oggetto di una ricerca condotta da uno psicologo della British Columbia University

A metà dei partecipanti è stata raccontata la versione secondo la quale un lavoratore sceglieva di restare a casa.

All’altra metà dei partecipanti è stata presentata la versione del racconto con il secondo finale.

Successivamente, è stato chiesto a tutti i partecipanti di dire cosa pensassero della scelta fatta dal lavoratore.

Coloro che hanno sentito la storia della persona che ha continuato a lavorare, tendono a valutare questa persona come meno sveglia.

D’altro canto, però, gli stessi soggetti tendono ad attribuire a questa persona caratteristiche positive.

La giudicano come “moralmente più affidabile, e in grado di fare all’occorrenza, la cosa giusta

Sei una “brava persona”

Il fatto che il soggetto in esame avesse scelto di continuare a lavorare.

Ciò era sufficiente a far sì che i partecipanti alla ricerca, attribuissero al soggetto caratteristiche positive.

Più in generale fece si che lo considerassero una “brava persona”.

In un altro studio, a delle persone veniva chiesto di valutare due operai meccanici.

Entrambe stavano realizzando lo stesso numero di pezzi, nello stesso tempo e con la stessa qualità.

Ma uno di loro, era costretto ad impegnarsi maggiormente.

Doveva fare molta più fatica degli altri, per portare a termine lo stesso compito.

I risultati

I risultati mostrano che la gente tende a vedere questo individuo come meno competente rispetto ai suoi colleghi.

Allo stesso tempo però, le persone che partecipavano alla ricerca, tendevano ad attribuirgli qualità morali migliori.

I partecipanti affermarono che, se fossero stati chiamati a fare quello stesso lavoro, avrebbero voluto come collega questo ragazzo.

Questo fenomeno è noto come “moralizzazione dello sforzo”.

“Moralizzazione dello sforzo”.

Secondo quanto scoperto dagli studiosi, una persona che lavora duramente è vista dal punto di vista morale, come migliore di altri.

Questo nonostante la stessa persona non ottenga sul lavoro, migliori risultati di altri.

Studi condotti su varie popolazioni nel mondo e culture differenti, hanno evidenziato che quelle caratteristiche che più definiscono una persona come affidabile.

Queste sono la generosità e la propensione a lavorare duramente.

Sembra quindi esistere una correlazione positiva tra “sforzo e moralità”.

Quindi secondo il fenomeno della” moralizzazione dello sforzo” le persone, tendono a credere che chi “lavora tanto”, sia più incline e disposto ad aiutare gli altri.

Differenza fra diverse persone

L’assunto sottostante è che le persone che lavorano duramente sono buone o più buone delle altre.

Questo spiega perché siamo più propensi a considerare “moralmente migliore” un amico che si impegna a correre una maratona per la ricerca sul cancro.

La stessa valutazione non vale quando un amico si presta a guardare tutte le stagioni di “Sex and the City” per la stessa finalità.

Le persone vedono come ‘moralmente migliori’ coloro che si sforzano, indipendentemente dai risultati.

Ciò ha contribuito a creare ambienti lavorativi con ‘incentivi perversi’.”

Sembra infatti che in generale, tendiamo ad attribuire più valore alla “quantità di attività svolta” piuttosto che alla “Produttività”.

In qualche modo, ci preoccupiamo più della quantità di tempo che una persona trascorre al lavoro, che dei risultati del suo lavoro

Duro lavoro, il lavorare tanto

Questo modo di pensare ha fatto si che molte persone ritengano che il “duro lavoro, il lavorare tanto” siano elementi distintivi.

Chi lavora tanto, è considerata una brava persona.

Alcuni studiosi hanno iniziato a chiedersi se forse questo altri non sia che un modo per  rassicurare anzitutto noi stessi.

L’antropologo David Graeber si chiedeva come il capitalismo potesse sostenere così tanti lavori che lui chiamava ” inutili”.

Si tratta di lavori in cui persino le persone che li svolgono li vedono come privi di scopo, che non producono nulla di valore per la società.

Un sistema capitalista dovrebbe eliminare queste inefficienze, ma non lo fa.

La ragione è che accanto al capitalismo, operiamo anche sotto un altro sistema: quello che il giornalista Derek Thompson chiama “Workism”.

Il Workism vede il lavoro non solo come fonte di reddito.

Infatti è un elemento che definisce la tua identità ed è fondamentale per delineare il tuo percorso di auto-realizzazione.

Disposti a lavorare duramente

Secondo questo modo di intendere il lavoro, non è sufficiente essere dei buoni lavoratori. Bisogna essere lavoratori disposti a lavorare duramente.

Questo modo di intendere il lavoro finisce con il generare delle “gare” tra lavoratori.

Immaginate due impiegati, entrambi desiderosi di dimostrare quanto siano laboriosi.

Ad un certo punto potrebbero iniziare anche a gareggiare per chi arriva primo in ufficio la mattina.

Questa loro competizione finirà con il far sembrare gli altri impiegati, che semplicemente arrivano in orario al lavoro, dei “pigri”.

Del resto, la società in cui viviamo tende a far sentire inadeguato (se non addirittura a punire) chi non riesce a stare al passo.

Naturalmente l’esempio sopra è un modo per estremizzare una situazione.

Tuttavia ben descrive il modo in cui senza quasi rendercene conto, arriviamo a spingere tutti a mostrarsi “laboriosi”.

Come? Arrivando prima in ufficio, o lasciando l’ufficio sempre più tardi. Ciò indipendentemente dal fatto che produca migliori risultati o più profitto.

Conclusione

Con questo non voglio demonizzare il “duro lavoro”.

Assolutamente no. Il duro lavoro può essere estremamente utile quando serve ad uno scopo preciso.

Il duro lavoro ha contribuito a costruire la nostra civiltà.

Quello su cui oggi voglio riflettere è quanto del nostro sforzo attuale è legittimo, finalizzato ad uno scopo.

Quanto invece è profuso solo per “mostrarci migliori”, per costruire la nostra reputazione morale?

Quando guardiamo un collega che arriva sempre per primo in ufficio ed è l’ultimo ad andarsene la sera, cosa stiamo osservando?

Qualcuno che “lavora duro” perché necessario ed i risultati ottenuti lo dimostrano? O stiamo osservando qualcuno che sta cercano di costruirsi la reputazione di “grande lavoratore”?

Non vi è mai capitato di riceve da qualche collega o cliente mail a qualsiasi ora del giorno e della notte?

A me si, ed essendo un libero professionista non nascondo che  di fronte ad un cliente che mi scrive alle 22 ho risposto per dimostrare quanto ero sul pezzo.

Ma la mia risposta poteva tranquillamente essere inviata il mattino successivo e avrebbe portato agli stessi risultati.

Con questo gesto ciò che volevo comunicare era: “guarda che sono sul pezzo e sono così bravo da risponderti subito”.

Il problema è che poi anche i miei collaboratori, si sono sentiti in obbligo di seguire il mio esempio.

Quindi anche loro hanno adottato l’usanza di rispondere ai clienti dopo l’orario di lavoro.

Sforzo vs moralità

Insomma, ad un certo punto ho dovuto convincere i miei ragazzi che questa pratica non era corretta, ma non è stato affatto semplice.

Il circuito mentale che collega lo sforzo alla moralità può essere molto radicato.

Alle volte non è possibile resistere ai bias psicologici, perché possono essere profondamente radicati

Tuttavia, possiamo imparare a riconoscerli, in modo da poterli considerare quando prendiamo decisioni importanti.

Potremmo non riuscire a spezzare quel circuito mentale. Possiamo però imparare a riconoscere i nostri bias, affinché non governino la nostra vita.

I cobra in india

C’è una storiella sugli incentivi nell’era del dominio britannico in India.

I britannici, disperati per l’invasione di serpenti cobra a Delhi, arrivarono ad offrire una taglia per ogni pelle di cobra, che gli abitanti avessero consegnato alle autorità.

Ma il piano ebbe un effetto contrario, poiché gli indiani intraprendenti iniziarono ad allevare cobra per ucciderli, portare le pelli e riscuotere la taglia.

Quando le autorità britanniche si accorsero del trucco, e abbandonarono il piano, gli allevatori indiani, rilasciarono i cobra che stavano allevando.

Fu così che anziché risolvere il problema, l’intervento delle autorità fini con l’aggravarlo.

Con il lavoro, abbiamo fatto qualche cosa di simile.

Abbiamo costruito una cultura che chiede la cosa sbagliata.

Se tutto ciò che chiediamo ai lavoratori è “maggiore sforzo”, finiremo con il creare dipendenti che lavorano tanto e duramente.

Allo stesso modo delle autorità britanniche, che chiedevano “maggiori pelli di serpenti morti” e non “meno serpenti”

Dovremmo invece concentrarci sui risultati e sulla qualità di quello che facciamo.

 

Gianluca Suardi

Gianluca Suardi

Sono nato a Milano e dopo aver conseguito un diploma ad indirizzo tecnico, ho studiato psicologia presso la Facoltà degli Studi di Padova e mi sono laureato in Psicologia del Lavoro nel 1996. La mia passione per le Risorse Umane, mi ha portato prima a lavorare per alcune società di Ricerca & Selezione di Personale come Recruiter. Nel 2010 fondo GSXecutive. Ci occupiamo di Ricerca e Selezione di Personale, Consulenza Aziendale e Coaching, Teambuilding. Attualmente iscritto all'Ordine degli Psicologi della Lombardia e all'Asnor (Associazione Nazionale Orientatori), nel 2024 conseguirò la qualifica di Coach accreditato ACTP con ICF- International Coaching Federation

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